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  • Cosa ne sappiamo davvero dell’Autismo?

Cosa ne sappiamo davvero dell’Autismo?

  • Posted by Davide Rosa
  • Categories Featured Content
  • Date October 10, 2016

L’autismo è uno dei fenomeni patologici più complessi del nostro universo. Il termine autismo, la cui etimologia deriva dal greco autós, che significa «sè» è stato coniato, nel 1908, da Eugen Bleuler, psichiatra svizzero tra i primi sostenitori della teoria psicoanalitica, per indicare un disturbo della schizofrenia, cioè «un restringimento delle relazioni con le persone e con il mondo esterno talmente estremo da escludere qualsiasi cosa eccetto il proprio sé».

Quando mi sono avvicinato al mondo dell’autismo, mi sono reso conto fin da subito di trovarmi di fronte ad una sindrome complessa e misteriosa, multifattoriale, per la quale risulta arduo trovare spiegazioni di tipo eziologico certe e sulla quale si intrecciano ipotesi talora contrastanti di medici e psicologi. Per questo motivo, la diagnosi viene ancora effettuata in base ad indicatori comportamentali. Ciò significa che come sintomi vengono considerati specifici comportamenti del paziente. Tale modalità di classificazione e diagnosi del ʹʹdisturbo autisticoʹʹ è quella attualmente adottata dai due manuali diagnostici più utilizzati: il DSM IV e lʹICD 10. Essi forniscono una griglia d’osservazione (la più diffusa, ma non univocamente accettata) che può essere seguita nel momento di operare una diagnosi. Il disturbo autistico, dunque, è considerato dalla comunità scientifica internazionale come un disturbo che interessa la funzione cerebrale. Normalmente i sintomi sono rilevabili entro il secondo/terzo anno di età e si manifestano con gravi alterazioni nelle aree della comunicazione verbale e non verbale, dell’interazione sociale e dell’immaginazione o repertorio di interessi. Le persone con autismo presentano spesso problemi comportamentali che nei casi più gravi possono esplicitarsi in atti ripetitivi (rituali, stereotipie ecc.), anomali, auto o etero‐aggressivi. Personalmente sono dell’idea che più che l’”autistico” esiste la “persona autistica”. Analizzandolo in questo modo l’autismo diventa più un fenomeno sociale che medico, che parte dalle emozioni e dall’affetto che si rivolge alla persona, a prescindere dal suo status fisico, mentale e sociale. Tra le cause più accreditate che portano all’autismo il mondo conoscitivo delle scienze (medicinali e comportamentali) ne riconosce fondamentalmente tre possibili: autismo da encefalopatia autoimmune post‐vaccinale, autismo da talidomide, autismo correlato al sistema immunitario.

La domanda sorge spontanea. Che ne è delle teorie di Bettelheim? Trovandoci di fronte ad un fenomeno delicato è facile imbattersi in false verità; verità che sono, a volte, largamente condivise per mancanza di termini di paragone o per semplice studiositas ad malum. Il caso più eclatante è, appunto, quello delle teorie bettelheimiane.

Bruno Bettelheim si occupò per anni di bambini autistici, psicotici e schizofrenici. Secondo la sua teoria, il bambino autistico non ha mai avuto la possibilità di sviluppare una vera personalità perchè ha rifiutato fin dall’inizio la capacità di agire in modo intenzionale. I bambini autistici si dividono, secondo Bettelheim, in due gruppi: quelli che non hanno mai fatto un passo in direzione del mondo esterno, o se ne allontanano sempre di più, e quelli che a questo loro ritrarsi accompagnano la creazione di un mondo privato parallelo al nostro. Il libro di Bruno Bettelheim, scritto 35 anni fa, fonda tutta la sua argomentazione ed i consigli di intervento sullʹipotesi che lʹautismo sia provocato da una relazione inadeguata dei genitori e in particolare della madre con il figlio, supposto “sano” sulla base della semplice osservazione dellʹaspetto, spesso bello o almeno normale. In Italia la figura di Bettelheim è diventata un classico della psicologia, una pietra miliare nello studio della schizofrenia e in particolare di quella sua forma grave e precoce che è lʹautismo. Ma provando a mettere il naso fuori dall’Europa il personaggio Bettelheim è tutt’altro che benvoluto. Navigando su internet, nei siti ufficiali organizzati dai genitori di soggetti autistici, ero alla continua ricerca di approfondimenti riguardo alle teorie di Bettelheim; ciò che notai da subito era una certa omissione di tali studi. Il fatto che non trovassi alcuna considerazione in merito da parte di persone, genitori di soggetti autistici, che lottano quotidianamente per delle risposte, aveva cominciato a destare in me qualche perplessità. Finchè non lessi il seguente articolo (per motivi di tempo ne riporterò solo una parte).

Nato nel 1903, due anni dopo Jacques Lacan e la pubblicazione de “L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud, non fu un genio della psicanalisi, come purtroppo ancora si legge, né un pioniere della psicologia infantile, né tanto meno il fondatore di una nuova pedagogia in grado di “curare” anche i più gravi disturbi psichici dell’età evolutiva. Fu solo un grande mistificatore che ebbe l’idea di impiegare proprie esperienze, dati biografici e circostanze storiche per costruire un falso edificio di sapere ad elevato tasso ideologico, entro cui collocarsi come signore e sovrano unico ed assoluto. L’operazione riuscì perfettamente, se la leggiamo in termini di “marketing” del prodotto realizzato, in quanto si creò una moda per le idee e per il suo autore che prescindeva da un’approfondita conoscenza e da una seria valutazione critica da parte di esperti realmente competenti di psicopedagogia e psicopatologia. Bettelheim assunse la direzione della Scuola Ortogenica di Chicago con l’intento di farne la fucina di idee e la sede di sperimentazione di quei metodi educativi che attribuivano ai bambini angosce e paure per ogni cosa che potesse far pensare ad una forma di organizzazione sia dei rapporti umani che degli spazi vissuti. Molti genitori influenzati da questa impostazione ideologica eliminavano porte e maniglie, orari ed abitudini, ruoli familiari e sociali, compromettendo spesso l’igiene e l’efficienza dei più semplici compiti di cura personale, riempiendo i mobili di caramelle e giocattoli e, in definitiva, riducendo le opportunità per i propri figli di sviluppare senso di realtà attraverso la consapevolezza di sé e del mondo, cosa che ovviamente si ottiene esercitando abilità di interpretazione, comprensione ed adattamento a circostanze reali e non vivendo secondo un modello artificiale. Ma è opportuno rilevare un problema oggettivo che impedisce l’esercizio della critica, ovvero la scarsa disponibilità di dati di conoscenza: quasi come se vi fosse un patto non scritto fra editoria e cultura, nel nostro paese si continua ad ignorare la grande messe di saggi e testimonianze che da lungo tempo ha mostrato il vero volto di quella realtà, evitandone accuratamente la traduzione e la diffusione. Invece si continuano a vendere titoli come “Psicanalisi delle fiabe”, “Fortezza vuota”, “Un genitore quasi perfetto” e “L’amore non basta”, e molti ancora divengono ignari allievi di un maestro dell’inganno che la notte del 12 marzo 1990 si ubriacò di whisky e assunse una grande quantità di psicofarmaci per trovare il coraggio di suicidarsi per asfissia, chiudendosi la testa in un sacchetto di plastica.

“La terribile verità su Bruno Bettelheim” fu redatto dallo stesso presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, professore Giuseppe Perrella, sulla base di un’estesa documentazione e di molte testimonianze raccolte da lui e dai suoi collaboratori, in varie città degli Stati Uniti d’America. Eppure nei percorsi universitari, allora come oggi, di tali rivelazioni non se ne trova traccia. Ci troviamo di fronte ad un argomento molto delicato, che rischia di minare anni e anni di certezze e di creare un precedente. La scelta, come giusto che sia, ricade nelle future generazioni. Mi auguro che quest’ultime siano spinte dal desiderio di innovarsi e che abbiano il coraggio di cambiare la realtà; evitando di “navigare in superficie” come quel Conformista privo di iniziativa descritto dal maestro Gaber.

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