L’autismo è un fenomeno medico o sociale?
Parliamo di uno dei fenomeni patologici più complessi del nostro universo. Non esistono cure assolute e gli esperti si contendono gli studi più avanzati, cercando delle risposte verificabili sul piano scientifico.
Il titolo di questo post è in realtà una provocazione. Io sono dell’idea che più che l’autistico esiste la “persona autistica”. Analizzandolo in questo modo l’autismo diventa più un fenomeno sociale che medico, che parte dalle emozioni e dall’affetto che si rivolge alla persona, a prescindere dal suo status fisico, mentale e sociale.
Esistono tuttavia scuole di pensiero differenti e a volte in contrasto tra loro: da un lato i trattamenti biomedici, che guardano all’autismo come ad “un raffreddore” da curare tramite medicinali o particolari accortezze alimentari; dall’altro i trattamenti comportamentali, che osservano l’autistico come persona da inserire nella società, offrendogli capacità sufficienti che possano aiutarlo in questo senso. Dove è la verità?
Cerchiamo di scendere più nel dettaglio.
Il termine autismo, la cui etimologia deriva dal greco autós, che significa «sè», è stato coniato, nel 1908, da Eugen Bleuler, psichiatra svizzero tra i primi sostenitori della teoria psicoanalitica, per indicare un disturbo della schizofrenia, cioè «un restringimento delle relazioni con le persone e con il mondo esterno talmente estremo da escludere qualsiasi cosa eccetto il proprio sé». Ritengo che sia una definizione piuttosto schietta e incompleta allo stesso tempo.
Quando mi sono avvicinato al mondo dell’autismo, mi sono reso conto fin da subito di trovarmi di fronte ad una sindrome complessa e misteriosa, multifattoriale, per la quale risulta arduo trovare spiegazioni di tipo eziologico certe e sulla quale si intrecciano ipotesi talora contrastanti di medici e psicologi.
Prima di proseguire, credo che sia necessario inserire una breve introduzione al DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) e alla sua struttura. Il DSM è uno strumento di diagnosi descrittiva dei disturbi mentali. La sua struttura segue un sistema multiassiale, divide ovvero i disturbi in cinque Assi, così ripartiti:
- ‐ Asse I: disturbi clinici, caratterizzati dalla proprietà di essere temporanei o comunque non strutturali e altre alterazioni che possono essere oggetto di attenzione clinica.
- ‐ Asse II: disturbi di personalità e ritardo mentale: si tratta di disturbi stabili, strutturali e difficilmente restituibili ad una condizione “premorbosa”.
- ‐ Asse III: condizioni mediche acute e disordini fisici.
- ‐ Asse IV: condizioni psicosociali e ambientali che contribuiscono al disordine.
- ‐ Asse V: valutazioni globali del funzionamento.
Attualmente molti quadri sintomatici differenti vengono designati (talvolta anche impropriamente) con il termine autismo. Per questo si preferisce spesso parlare più genericamente di disturbi dello spettro autistico. Allʹinterno di tale definizione si fanno oggi rientrare tutte quelle patologie caratterizzate da gravi alterazioni del comportamento, della comunicazione e dellʹinterazione sociale. Questo tipo di disturbi è classificato dallʹAmerican Psychiatric Association (DSM IV) col nome di Disturbi generalizzati dello sviluppo (PDD, Pervasive Developmental Disorders), poiché altera diffusamente la normale evoluzione della personalità.
Del DSM IV fanno parte altri quattro disturbi che, pur distinguendosi dal Disturbo Autistico propriamente detto, hanno tuttavia con esso alcune affinità: il Disturbo di Rett, il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza, il Disturbo di Asperger, e il Disturbo Generalizzato dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato. Questi disturbi sono di solito evidenti nei primi anni di vita e sono spesso associati con un certo grado di Ritardo Mentale, che, se presente, dovrebbe essere codificato sullʹAsse II (vedi elenco sopra).
Nello specifico, il disturbo autistico è considerato dalla comunità scientifica internazionale un disturbo che interessa la funzione cerebrale. Normalmente i sintomi sono rilevabili entro il secondo/terzo anno di età e si manifestano con gravi alterazioni nelle aree della comunicazione verbale e non verbale, dellʹinterazione sociale e dellʹimmaginazione o repertorio di interessi. Le persone con autismo presentano spesso problemi comportamentali che nei casi più gravi possono esplicitarsi in atti ripetitivi (rituali, stereotipie ecc.), anomali, auto o eteroaggressivi. Nel DSM IV il disturbo autistico è inserito nell’Asse II, sotto la dicitura F 84.0 Disturbo autistico [299.00] (214). Elencare più nel dettaglio tutte le caratteristiche riscontrabili nel disturbo autistico potrebbe risultare prolisso, mi limiterò quindi a fornire una immagine dell’autismo come quella di un puzzle di 10000 pezzi al quale ne mancano alcuni (di più o di meno, a seconda dei casi) per cui risulterà alla fine comunque improbabile comprendere la figura nascosta dietro il puzzle (già di per sè complesso da ricostruire).
«A volte sentivo e capivo,
e altre volte i suoni e le parole
raggiungevano il mio cervello
come rumore insostenibile,
come di un treno merci
che arriva in corsa verso di te»
Dott.ssa Temple Grandin,
ex bambina autistica,
1983
Quali terapie adottare, quindi?
Sono convinto che il tipo di terapia da attuare dovrebbe tenere conto di un numero indefinibile di variabili, che mutano a seconda dell’informazione, del contesto geografico, dello status sociale della famiglia, delle cause della sintomatologia, della forza interiore del soggetto autistico. Un autistico nato nell’hinterland milanese potrebbe avere bisogno di terapie diverse dall’autistico nato nelle Filippine o in California.
Va specificato, prima di proseguire, che nessuna terapia descritta andrà considerata come sostitutiva di altre, spesso le terapie possono integrarsi tra loro, risultando complementari l’una all’altra allo scopo di produrre risultati migliori.
Proverò a passare in rassegna i due fondamentali trattamenti largamente utilizzati: i trattamenti biomedici e i trattamenti comportamentali.
Trattamenti biomedici
I trattamenti biomedici tendono ad individuare un disturbo metabolico nel soggetto autistico. In effetti, è facilmente riscontrabile come tutti gli autistici, a prescindere dal paese di provenienza e dall’estrazione socio-culturale, presentino in comune delle allergie alimentari più o meno marcate.
Alcuni studi condotti da Cade e collaboratori riportano:
Su un ampio campione di pazienti autistici e schizofrenici abbiamo trovato che oltre il 90% degli individui valutati avevano elevati livelli di proteina beta nel sangue e nelle urine e una disfunzione nel processo enzimatico per digerire le proteine del latte.
Il protocollo inglese sottolinea come:
Le indagini biochimiche intraprese al nostro centro di ricerca supportano l’ipotesi che nell’autismo vi sia un disturbo metabolico nel quale alcuni componenti peptidici, attivi biologicamente, derivanti principalmente da gluteine e caseina del cibo, non riescono a essere smantellati correttamente dall’organismo e che, in presenza di danni alla membrana intestinale, passano in elevate quantità nel sangue. La presenza di questi composti nel sangue e nelle urine è rilevabile attraverso misure standard con HPLC. L’azione di filtro della barriera sanguigna del cervello è gravemente compromessa nei casi di autismo, e dunque si verifica un ulteriore passaggio di queste sostanze, questa volta nei tessuti cerebrali. I peptidi arrivati in tal modo nel cervello hanno la capacità di attivare i recettori oppioidi numero 46.
Anche O’Banion nel 1978 aveva monitorato il comportamento e l’alimentazione di un bambino autistico di otto anni.
Ne risultò che il frumento e derivati, lo zucchero, il latte e i latticini causavano nel bambino dei disturbi comportamentali. In particolare, l’intolleranza a glutine e caseina acuiva i comportamenti anormali dei bambini autistici, fra cui l’iperattività, il riso forzato, nonchè le azioni compulsive e incontrollate.
Nei miei studi di caso su soggetti autistici condotti negli ultimi 8-10 anni ho potuto similmente riscontrare allergie alimentari particolarmente gravi nei confronti di alimenti di pesce e frutta a guscio (noci, arachidi, nocciole, ecc.).
Si tratta di terapie legate a processi di integrazione del soggetto autistico sulla sfera relazionale e sul dualismo autismo e società. Molti di questi trattamenti sono spesso citati tra le pagine dei siti web organizzati da genitori di soggetti autistici, coadiuvati dalle considerazioni di esperti che rafforzano gli esperimenti pedagogici o psicologici attualmente in uso.
La letteratura scientifica internazionale e le Linee Guida per l’autismo (Raccomandazioni tecniche operative per i servizi di neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, S.I.N.P.I.A.), mettono in risalto la terapia dell’Applied Behaviour Analysis (A.B.A.) tra le più valide per affrontare la sindrome dell’autismo e non solo.
L’ABA è l’uso dei principi scientifici dell’analisi comportamentale applicata per la modifica di comportamenti socialmente significativi e, data la definizione, non conosce limitazioni nella sua applicazione relative ad età o a patologie. Questa metodologia, infatti, non è appannaggio esclusivo dell’autismo: ad esempio nei paesi anglosassoni è normalmente utilizzata come strumento per risolvere problematiche nel mondo del lavoro. Le scelte curricolari, cioè cosa si decide di insegnare o su quali comportamenti/problema si decide di intervenire dipendono dalla situazione del singolo soggetto:
- ‐ la funzionalità di certe scelte a lungo termine (in un giovane adulto autistico non verbale e non vocale, la priorità dovrebbe essere l’insegnamento di abilità indipendenti e possibilmente vocazionali, l’esenzione di comportamenti problema) per incrementare la qualità della vita dell’individuo e familiari;
- ‐ il repertorio attuale dell’individuo (deficit, capacità ed abilità);
- ‐ la situazione familiare e scolastica (cioè quanto questi due ambienti possano sostenere i programmi di cambiamento ed applicare le linee guida)
L’ABA si basa quindi sull’uso dei principi della scienza del comportamento per la modifica di comportamenti socialmente significativi. Esiste un metodo particolare di analisi del comportamento applicata che riguarda l’area di ricerca finalizzata ad applicare i dati che derivano dall’analisi del comportamento, per comprendere le relazioni che intercorrono tra determinati comportamenti e le condizioni esterne. Si identifica perciò la figura di un “analista comportamentale” che utilizza i dati ricavati per formulare teorie relative al perché un determinato comportamento si verifica in un particolare contesto e, conseguentemente, mette in atto una serie di interventi finalizzati a modificare il comportamento e/o il contesto.
Larsson analizza come:
Le informazioni ricavate dall’analisi del comportamento, saranno utilizzate in maniera propositiva e sistematica per modificare il comportamento. L’ABA prende in considerazione i seguenti quattro elementi:
- ‐ gli antecedenti (tutto ciò che precede il comportamento in esame);
- ‐ il comportamento in esame (che deve essere osservabile e misurabile);
- ‐ le conseguenze (tutto ciò che deriva dal comportamento in esame);
- ‐ il contesto (definito in termini di luogo, persone, materiali, attività o momento del giorno) in cui il comportamento si verifica.
Il programma di intervento (la modifica del comportamento) viene realizzato su dati che emergono dall’analisi, utilizzando le tecniche abituali della terapia comportamentista: la sollecitazione (prompting), la riduzione delle sollecitazioni (fading), il modellamento (modeling), l’adattamento (shaping) e il rinforzo. Sul piano operativo ci sono tre componenti necessarie per avere una terapia ABA, che devono cooperare e collaborare: il team, il programma e gli esercizi. Le persone coinvolte, in genere, nel team sono: un analista comportamentale, i terapisti, i membri della famiglia e lo staff scolastico (anche se non dall’inizio). L’analista comportamentale viene generalmente indicato con il nome di consultant ed è responsabile delle altre componenti del team, del programma e della sua messa in pratica, della formazione dei terapisti: periodicamente valuterà i risultati e di conseguenza introdurrà modifiche o interventi più o meno significativi.
Esistono due tipi di intervento ABA: quello intensivo e quello precoce.
Con intervento intensivo si intende una terapia dalle venti alle quaranta ore settimanali.
Alcuni studi indicano:
[…] risultati migliori nei programmi di almeno trenta ore (Lovaas, 1987; Sheinkopf e Siegel, 1996; Anderson et al., 1987; Birnbrauer e Leach, 1993). La decisione su quante ore di terapia fare va presa considerando le condizioni specifiche del bambino singolo. Va anche considerato che è difficile quantificare le ore in modo preciso. E’ chiaro che un intervento di venti ore di terapia fatto bene è meglio di uno di trenta fatto male. In un caso famoso di due bambini della stessa famiglia, entrambi considerati oggi “recuperati”, le ore di terapia formale sono state tra dieci e un massimo di trentacinque (Maurice, 1993; Perry et al.,1995). Ma terapia informale e incidentale è stata svolta per tutte le ore della giornata da genitori e altre persone ben informate e impegnate, quindi nel loro caso è difficile stabilire quante ore di terapia abbiano veramente fatto i bambini. La decisione su quante ore dedicare all’ABA dipende molto, quindi, da quanto è efficace e terapeutico il modo in cui si passano le altre ore. Il fatto di fare un intervento ABA non esclude che il bambino possa anche fare altri tipi di terapia (es. Logoterapia, OT, ecc.)
Per intervento precoce si intende, invece, un intervento che ha luogo prima dell’età dei cinque anni.
Brunetti evidenzia come:
Il Princeton Child Development Center afferma che mentre solo il 10 % dei bambini che entra nel loro centro dopo lʹetà di cinque anni riesce successivamente a frequentare una sezione normale a scuola (negli Stati Uniti i bambini che non riescono a partecipare in modo significativo alla lezione vengono messi in sezioni o scuole specifiche con personale più specializzato), il 50% di quelli che entrano prima di cinque anni riescono a frequentare una sezione normale.
Un forte contributo documentario utile alle terapie di intervento comportamentali è stato fornito dagli studi di Lovaas. Nel suo “Teaching Individuals with Developmental Delays”, egli elenca nove elementi chiave da tenere in considerazione durante una terapia ABA.
1. Unʹ enfasi comportamentale. Questo include non soltanto imporre un lavoro strutturato e rinforzare comportamenti appropriati quando si verificano, ma anche applicare alcuni interventi più tecnici. Questi interventi includono condurre le prove discrete, modellare fino a successive approssimazioni, produrre un mutamento nel controllo dello stimolo, stabilire una discriminazione di stimoli e insegnare lʹimitazione.
2. La partecipazione della famiglia. I genitori e altri membri della famiglia dovrebbero partecipare attivamente allʹinsegnamento alla persona che ha un ritardo dello sviluppo. Senza questa partecipazione, gli obbiettivi raggiunti in setting professionali come un programma di educazione speciale, clinica o ospedaliera raramente portano allo sviluppo funzionale degli stessi in famiglia o nella comunità.
3. Lavoro uno a uno. Approssimativamente per i primi 6/12 mesi di trattamento, lʹ insegnamento dovrebbe essere individuale invece che in gruppo perché le persone con autismo ed altri disordini relativi imparano di più in situazioni uno a uno. Questo training necessita di essere supervisionato da un professionista laureato in Analisi Applicata del Comportamento e condotto in un trattamento uno a uno. Il trattamento può essere portato avanti da persone che sono state formate in trattamenti comportamentali, inclusi studenti laureandi e membri della famiglia.
4. Integrazione. Prima di integrarlo in un gruppo, allʹindividuo dovrebbero essere insegnati più comportamenti sociali adeguati possibile. Quando un individuo è pronto per entrare in una situazione di gruppo, il gruppo dovrebbe essere più tipico (normale o medio) possibile. Le persone con autismo danno migliori prestazioni quando integrate con persone neurotipiche che quando messe con altri individui autistici. In presenza di altre persone con autismo, ogni abilità sociale o di linguaggio che lʹindividuo ha sviluppato di solito scompare in pochi minuti, presumibilmente perché questi comportamenti non sono reciprocati. Molte esposizioni a persone neurotipiche, comunque, non sono sufficienti per facilitare comportamenti appropriati. Le persone con autismo richiedono esplicite istruzioni su come interagire con i pari.
5. Completezza. Le persone con autismo inizialmente hanno bisogno che gli venga insegnato virtualmente tutto. Possono avere alcuni comportamenti appropriati; ma nuovi comportamenti devono essere insegnati in situazioni uno a uno. Come detto prima, ciò è perché lʹinsegnamento di un comportamento raramente porta allʹemergere di altri comportamenti non direttamente insegnati. Per esempio, insegnare abilità di linguaggio non porta immediatamente allʹemergere di abilità sociali, e insegnare unʹ abilità di linguaggio, come le preposizioni, non porta direttamente allʹemergere di altre abilità di linguaggio, come lʹacquisire i pronomi.
6. Intensità. Forse a corollario della necessità della completezza, un intervento efficace richiede un gradissimo numero di ore, circa quaranta ore a settimana. Dieci ore alla settimana sono insufficienti, così come venti ore. Nonostante incrementi nella funzione cognitiva (come ci riferisce il punteggio QI) si possano osservare, si dovrebbe capire che non significa che lo studente sarà integrato con successo con i pari neurotipici, ma invece che lo studente potrebbe regredire a meno che il trattamento non continui. La maggior parte delle quaranta ore, almeno durante i primi 6/12 mesi dellʹintervento, dovrebbero essere impiegate nel dare maggior importanza a rimediare i deficit del linguaggio. Dopo, questo tempo, può essere diviso tra il promuovere lʹinterazione con i pari e continuare a lavorare sui deficit del linguaggio.
7. Differenze individuali. Esistono grandi differenze nelle risposte degli studenti al trattamento comportamentale. In condizioni ottimali, una ragguardevole minoranza di bambini acquisisce e mantiene un così detto livello funzionale normale. Questi sono i bambini che vengono chiamati “audiority learners” (imparano attraverso il canale uditivo). I rimanenti bambini, “visual learners” (imparano attraverso il canale visivo), non raggiungono livelli funzionali normali con il trattamento comportamentale al momento e richiedono un trattamento intensivo uno a uno per il resto della loro vita per mantenere le abilità esistenti e continuare a sviluppare nuove abilità. I programmi designati a facilitare la comunicazione per i “visual learners” appaiono promettenti ma hanno ancora bisogno di ricerca e dati risultanti dalla ricerca stessa.
8. Durata. Il trattamento deve durare per tutta la vita della persona con autismo perché terminare il trattamento può portare alla perdita delle acquisizioni. Come precedentemente discusso, lʹunico dato ad eccezione di questo è per quella porzione di bambini che raggiungono una normale funzionalità con un intervento intensivo e precoce entro i 7 anni di età.
9. Controllo di qualità. Diventa importante specificare lʹimportanza del trattamento il più possibile così che possa essere replicato da altri. Questo diviene particolarmente importante perché qualsiasi persona può falsamente presentarsi come qualificata a condurre un trattamento avendo, per esempio, frequentato un seminario di un giorno o di una settimana.
Mio fratello è diverso
Mio fratello è diverso. Vi spiego cosa voglio dire…
Se sto facendo un gioco sul pavimento…
…mio fratello ci cammina su.
Lo fa perché non sa come si gioca (anche se glielo spiego).
Quando giochiamo a fare la lotta, mio fratello si eccita talmente…
…che mi morde o mi picchia.
È perché non può controllare i suoi istinti.
Certe volte quando gli parlo…
…mio fratello mi ignora.
È perché non sempre capisce quello che dico.
Qualche volta, se sta giocando non sente né vede nient altro.
Quando mi comporto male mi sgridano…
…ma mio fratello no.
Questo può sembrare ingiusto.
La mamma dice che è perché quando faccio delle birichinate me ne rendo conto, ma mio fratello no.
A tavola mio fratello non riesce a stare seduto.
È perché ha bisogno di un sacco di spazio
e le situazioni troppo difficili per lui (come i pasti) lo scombussolano.
A casa nostra porte e finestre sono sbarrate…
…perchè mio fratello potrebbe cercare di scappare o di saltare giù.
È perché non conosce i pericoli.
Quando andiamo a fare la spesa mio fratello strilla e fa baccano.
La gente si volta a guardarci e fa commenti…
…ma non sa che mio fratello non è in grado di parlare come me.
MIO FRATELLO È DIVERSO.
Quando gioca con un giocattolo lo usa per picchiare sul pavimento.
Scarabocchia sempre sui miei disegni.
Corre davanti alla tele quando cerco di guardarla.
Non sa giocare con gli altri bambini.
Per strada non è sicuro lasciarlo andare fuori dal passeggino.
Ride quando sono di cattivo umore (perché non capisce come mi sento).
Si esprime a gesti perché non conosce molte parole.
Porterà il pannolino per molto tempo.
MIO FRATELLO È AUTISTICO.
Quello che posso fare io…
…è assicurarmi che non faccia nulla che può fargli male.
Non sgridarlo, non picchiarlo.
Lasciarlo stare quando vuole rimanere per conto suo.
Posso…
…abbracciarlo quando viene da me.
Sorridergli quando mi guarda.
Leggergli un libro quando me ne porta uno.
Fargli il solletico quando facciamo la lotta.
Cercare di capirlo.
MA SOPRATTUTTO…
…volergli bene.
Sempre.
Questo Articolo è tratto da:
Il Fattore D: studio di caso di un ragazzo autistico, D. Rosa, Ed. Nuova Cultura, 2010
A seguire:
L’Autismo visto dal fotografo Timoty Archibald nel suo progetto “ECHOLILIA”.